Claudio Signanini
La donna, il fenicottero e la pantera
Collegio dei geometri
Non so bene perché ma, davanti alle immagini di donne -e sono tante- di Claudio Signanini, mi passano in mente nomi femminili che hanno segnato il tempo e la storia. Eva, Cleopatra, Elena di Troia, Messalina, Teodora, Beatrice, Matilde di Canossa, Caterina da Siena, Lucrezia Borgia, Costanza Bonarelli. E poi Madame de Montespan, la Pompadour, Anita Garibaldi, Eleonora Duse, Isadora Duncan, Maria Callas, Grace Kelly, Ines de la Fressange; e ancora altri nomi si potrebbero aggiungere. Un universo femminino vario e accattivante, segnato dal sangue e dall’estasi, intrecciato di amore e morte, di cadute e resurrezioni in cui leggenda, realtà e umano esistere appaiono come bagliori sulla scena del tempo. Icone e riferimenti che attraversano il contemporaneo immaginario e si profilano in luoghi e contesti differenti, drammatici, poliformi dove comunque sono colti e fissati segni di bellezza, di inquietudine, di smarrimento, o di forza. Forse in queste indicazioni vedo profilarsi un punto di sintesi, una sorta di nodo essenziale, di ricerca perseguita dall’artista in cui bellezza, fascino, presenza emergono e si fanno alone, pienamente luminoso o, al contrario, ritagliato nell’ombra. Quelle di Signanini sono figure femminili prese a prestito dalle riviste di moda, dalla pubblicità della comunicazione visiva; ma in qualche modo vengono decontestualizzate, o meglio inserite in altri contesti, in un altrove che diventa pretesto per suggerire differenti, singolari, nuove o antiche storie. E proprio in questo altrove, spesso straniante, si colgono suggestioni che si traducono in presenza; mentre una sorta di silenzio sembra circondare, avvolgere, nutrire l’eterno femminino che aleggia e appare. Mentre suggestioni nipponiche suggerite da calligrafici segni o evocazioni che portano a sfiorare onirici riferimenti simbolisti aleggiano nelle impaginazioni, nella disposizione del racconto fermato. Le sovrapposizioni di materiali, fogli di plastica come sipari leggeri, colori, pennellate libere spesso convulse, accostamenti stracciati di carta stampata vanno a comporre contesti in cui l’occhio cerca, scopre, indaga. Quei segni, quei materiali, giocati con attento equilibrio in cui l’ombra, il nero quasi diventano una costante, forse possono apparire come gabbie, inferriate, anche sfregi; e lo sono, proposti quasi come accusa, denuncia da cui liberarsi, da cui emergere. Segnali di libertà da raggiungere, da conquistare, per andare oltre.
E poi ci sono il fenicottero e la pantera, animali che vestono una singolare eleganza nell’apparire, nel porsi, nel presentarsi. Il volo e l’incedere lento sull’acqua dell’uno e lo scatto così come il passo ferino dell’altro si fanno gesto aristocratico, comunque segno intriso di libertà. Libere interpretazioni immaginative dell’artista non scollegate, anzi da accostare alla sfilata delle sue donne, quasi un continuum sempre ispirato dalla ricerca di bellezza, dal cogliere gesti, pose, pause che vanno a comporre -e scomporre- equilibri esteticamente accattivanti, intriganti. Solo accennati i probabili contesti in cui donne, fenicotteri e pantere sono inseriti, forse luoghi urbani ma anche spiagge e boschi, cieli e acque ferme, la giungla e la caverna. Ma è la sopravvivenza in quei contesti, sempre sottolineati dal silenzio, ad emergere, a divenire emblematica, possibile chiave di lettura.
Alessandro Abrate
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